Il ventunesimo secolo. Il secolo del capitalismo, della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica. Il secolo degli schermi, della scomparsa del libro, dei gessetti nelle scuole e del libretto all’università. Qualsiasi cosa a portata di un click e nello stesso tempo sempre un click a poter eliminare tutto. Lunghe conversazioni face to face sostituite da semplici testi di parole digitate. Ed è proprio così che siamo diventati più capaci nel mondo digitale, ma incapaci in quello reale. Mai come in questo periodo storico di pandemia, è sempre maggiore la necessità di dover utilizzare lo schermo per potersi interfacciare con il lavoro, l’istruzione e la vita in generale. Un messaggio o una videochiamata sembrano poter colmare il vuoto che il distanziamento sociale ha imposto. Tuttavia è così forte l’impatto con questa dimensione, che spesso scompare la percezione di ciò che va oltre il filo quasi impercettibile interposto tra la dimensione reale e quella dell’Internet. Ormai però soprattutto tra i giovani, che costituiscono certamente la maggior parte degli utenti dei sistemi multimediali, la dimensione dello smartphone rappresenta una seconda realtà, quasi un palcoscenico dove ognuno può costruirsi a perfezione la maschera da portare in scena nel proprio post. Dunque tutti coloro che possiedono un profilo social, attraverso contenuti condivisi e pubblicati, sono capaci di costruirsi un’identità, o meglio la migliore versione di sé, un modello 2.0 da mostrare alla popolazione Instagram o Facebook. È evidente come i social network e qualsiasi piattaforma o sito online in generale, siano diventati in questo modo luoghi reali ed è proprio per questo che il loro uso deve essere cosciente e consapevole. Lasciare perciò delle vere e proprie città virtuali nelle mani dei bambini, equivale a lasciarli camminare da soli, in un’età in cui non hanno ancora i mezzi per farlo. Se dunque si è piccoli o comunque non abbastanza maturi da reggere al meglio il confronto con la realtà aumentata e soprattutto l’esposizione di sé stessi agli altri, allora è bene non permettere l’apertura di un profilo e controllare l’utilizzo di Google. Nello stesso modo infatti in cui un bambino viene accompagnato dagli adulti a scuola, a fare sport, o al parco giochi, deve esserlo anche su Internet. Quando questo non avviene i bambini, o comunque ragazzi non sufficientemente maturi, totalmente immersi in questo secondo mondo, perdono il controllo e non riflettono sulle ripercussioni reali delle loro azioni digitali. È stato questo il caso del macabro gioco “Blue Whale” nato nel 2016, ma che sopravvivendo nel tempo, ha sviluppato una vera e propria epidemia di suicidi. Si trattava di 50 prove sempre più estreme, che portavano gli adolescenti ad una fine orribile. La corrispondenza tra le vittime e i cosiddetti “curatori” che prescrivevano le prove, avveniva esclusivamente tramite il web e attraverso hashtag con codici, dietro ai quali si nascondeva l’identità dei carnefici. Ed è stato così che nella patria originale del gioco, la Russia, sono stati collegati tra loro decine di suicidi, attribuendone come causa comune questo gioco dell’orrore. Dalla Russia sembra che il fenomeno si sia successivamente diffuso in altri paesi come Italia, India e Pakistan. Per fortuna sembra che poi il gioco abbia avuto una fase calante e che “l’ombra Blue Whale” sia pian piano svanita, grazie alle molteplici segnalazioni e in particolare In Italia a seguito della ricostruzione in un servizio del programma televisivo “Le Iene” che, se pur fantasiosa sotto certi aspetti, ha convinto il pubblico italiano. Ma gli avvenimenti “pericolosi” verificatisi su Internet non sono di certo terminati dopo questo gioco, anzi sono all’ordine del giorno e cominciano a colpire anche fasce di età prima non coinvolte. Sconvolgente quanto accaduto in questi mesi a Palermo ad una ragazzina di soli 10 anni, morta soffocandosi per una sfida estrema su Tik Tok. La bambina non ce l’ha fatta dopo quel gioco atroce, il “Blackout challenge”, in cui ha tentato di sfidare la morte con una cintura stretta al collo. Antonella era una bambina molto social, soprattutto da quando mamma e papà, nel giorno del suo decimo compleanno, le avevano regalato un cellulare tutto suo. Aveva tre account su Facebook e una decina su Instagram e amava moltissimo, stando a quanto raccontato dai genitori, ballare, cantare e scaricare tutorial per truccarsi e acconciare i capelli su Tik tok. Piuttosto che commentare e cercare di trovare colpevoli o cause all’origine di questi episodi, sarebbe bene riflettere. Possibilità di circolazione e interconnessione tra persone in qualsiasi parte del mondo, ma poi cyberbullismo, predatori cibernetici, pubblicazione di informazioni private e molto altro ancora. Quanto la tecnologia ha effettivamente migliorato e facilitato le nostre vite?