Sono un uomo di 43 anni e 10 anni fa ho iniziato con la mia compagna un progetto di vita insieme. Nel 2014 abbiamo affidato nelle mani di Dio il nostro amore.  Nel 2015 abbiamo ricevuto il primo dono: Samuele e nel 2018 il secondo: Elena. Le prospettive erano floride e non ci mancava niente. Figli, salute, vita condivisa, lavori dignitosi. Cosa volere di più.

Dopo anni di sacrifici nel 2015 abbiamo anche acquistato casa. Così come tutte le giovani coppie che possono fare affidamento solo sulle proprie risorse, abbiamo deciso di investire nella zona 167, un’area periferica ma con un’importante espansione urbanistica ed una forte vocazione alloggiativa e residenziale. Negli ultimi anni questa zona ha visto trasferirsi e insediarsi per lo più giovani nuclei familiari e sono sorte chiese, negozi, studi professionali, attività commerciali e tutto ciò che consente ad una comunità di quartiere di godere di una propria pseudo autonomia economica e sociale indipendente dal “centro” città. Dunque fin qui la mia storia è la stessa canzone sentita in altre mille radio. Tuttavia durante la mia modesta esistenza ho imparato che la riflessione, il rispetto degli altri e delle prerogative di ciascuno di noi, sono luoghi in cui imparare.

Io non mi occupo di servizi sociali, di welfare o di politiche giovanili. Tuttavia da qualche mese sento l’esigenza di manifestare il mio e il nostro disagio nel vivere ogni giorno come se non vedessimo l’ora che cambi qualcosa, anche se non cambia mai niente. La sera, dpcm permettendo, non si è mai liberi di fare una passeggiata in tranquillità. Bisogna sempre stare attenti a schivare biciclette costate quanto una moto che sfrecciano dappertutto, anche sui marciapiedi. Anche dinanzi a bambini o donne incinta, alla richiesta di rallentare, la risposta è una risatina senza neppure giustificazioni. Per non parlare dei ragazzi che fanno a gara a chi prende più mi piace sui social rischiando la vita e scavalcando aree di cantiere o semplicemente inibite per sicurezza. I genitori poi nel momento del bisogno vengono chiamati dai figli per difendere i propri comportamenti strafottenti o da pseudo adulti. Ai miei tempi invece mio padre mi avrebbe mollato un “ceffone”, anche se avessi avuto ragione. A volte mantenere la calma con questi “nostri figli” è un’impresa ardua. Avere al contempo un confronto civile, soprattutto quando si sentono parolacce gratuite, non è mai semplice. Anche i nostri figli cerchiamo spesso di farli ragionare, ma è come mandare delle pecore per far ragionare dei lupi. Adesso però capiamo a ragion veduta che non si tratta solo dei nostri figli, ma è il sistema in cui siamo integrati a non avere più controllo. Abbiamo ad esempio rinvenuto, sotto le giostrine per i bimbi, residui organici di serate sicuramente felici per chi si affaccia alle prime esperienze con l’altro sesso. Poi nel fare pulizie abbiamo trovato anche tre coltelli di diversa taglia e nel fare manutenzione al verde, bustine di erba confezionata. Nessuno dei residenti però proferisce parola e le istituzioni fanno soltanto finta di esserci.

Abbiamo nel nostro quartiere più bar e negozi che contenitori culturali. Nessuna piazza per incontrarsi, nessun luogo di aggregazione sicuro che non sia una sala giochi o una ricevitoria. Tutto all’ insegna del “devi comprare”. Nessun controllo, nessuna regola e sembra che la democrazia si sia trasformata in anarchia. Come perciò ho già evidenziato nel titolo, abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo bisogno di un ritorno alla normalità e alla legalità, abbiamo bisogno di regole, di spazi, di contenitori educativi e culturali. Abbiamo bisogno di Dio nella nostra vita.

Non sono uno che vuole togliere le strisce nere ad una zebra, ma vorrei provarci con l’aiuto di chi la pensa come me. Ho creduto e credo nel futuro ma non voglio essere l’unico.