Esplorando il corpo umano di Francesca Caputo

Il corpo è lo specchio dell’essere umano. Ogni individuo potrebbe presentarsi proprio attraverso la storia che il suo corpo ha avuto nella propria vita. Il corpo non è dunque una semplice macchina, ma influenza il modo di stare al mondo della persona. Tutte le emozioni, i sentimenti e in generale qualsiasi tipo di esperienza hanno una radice corporea. L’insieme di questi elementi va a formare così l’identità di ciascuno, attraverso la quale si esprime e riesce a relazionarsi con il mondo. Tuttavia il corpo, inteso come espressione di sé, non può essere interpretato in senso puramente estetico. Oggi invece si assiste ad una continua esibizione del corpo e ad un’ossessiva ricerca della sua perfezione. Persone comuni dedicano gran parte del proprio tempo alla “manutenzione” eccessiva del proprio corpo ed è ormai presente nella società contemporanea un vero e proprio culto di esso. La cura di se stessi e la ricerca del “bello estetico” non è di certo un male, ma non nel caso in cui vada a costituire l’unico elemento fondante del proprio io. Infatti proprio perché il corpo è “possibilità di esperienza”, non è riducibile esclusivamente al “bello”, ma è il punto di partenza per ogni altro tipo di manifestazione dell’individuo. Anche nel mondo greco il corpo aveva un’importantissima valenza. Il Discopolo di Mirone, Hermes con Dioniso di Prassitele o l’Apollo del Belvedere di Leocare sono infatti alcune fra le molteplici sculture greche in cui viene esaltato l’ideale greco della bellezza del corpo nudo dalle proporzioni armoniche. Il termine Kalokagathia, dal greco crasi dell’espressione “kalós kai agathós”, letteralmente “bello e buono” rappresenta i caratteri della bellezza secondo la concezione greca arcaica. Bellezza, forza, onore e coraggio sono dunque i tratti fondamentali dell’eroe omerico donati dalla divinità: il valore del corpo, la prestanza fisica sono uniti alla lealtà, alla virtù, in quanto l’estetica presenta l’etica. Molti sono anche i filosofi e pensatori che si sono occupati del corpo. Partendo da Platone, che riteneva che il corpo (sòma) fosse tomba (sèma) dell’anima, fino a giungere alla filosofia contemporanea. Platone riteneva infatti che l’educazione fosse quel processo di progressiva ascesi ed elevazione dalla buia caverna del corpo alla luce solare della verità incorporea cui solo l’anima può accedere, come appare evidente nel famoso mito della caverna. Particolare è il contributo della psicoanalisi, in cui Freud elaborò le sue teorie, a differenza dei filosofi precedenti, partendo da concreti casi clinici. Freud attribuì un ruolo centrale al corpo a partire dagli studi sull’isteria, in cui osservò che alcune sue pazienti presentavano sintomi somatici associati a disturbi psichici. Trattando infatti il caso di Anna O., intraprese un processo chiamato “svuotamento del camino”, basato sulla connessione dei fenomeni isterici presenti a traumi patiti nel passato.  Osservò come tali fenomeni interessassero in particolare le donne borghesi, a causa dei divieti imposti alla sessualità e dello stereotipo secondo il quale il marito è da considerarsi la figura dominante e la moglie vista semplicemente nel ruolo di madre e finalizzata alla riproduzione. Nonostante questo grande valore attribuito al corpo nel corso del tempo, ci sono stati nella storia e continuano ancora nella società di oggi, eventi in cui l’uomo è stato completamente privato di questo luogo prezioso che costudisce e manifesta il proprio essere. Basti pensare a come fu ridotto il corpo degli uomini all’interno dei Lager. La propaganda nazista aveva mosso l’accusa contro gli ebrei di essere “esseri pericolosi” e li considerava di “razza” inferiore a qualunque altro popolo. I lager nazisti erano dunque stati concepiti in funzione di uno sterminio di massa. Hannah Arendt, facendo riferimento a Heidegger, denominava la morte nei campi di sterminio come “fabbricazione di cadaveri”. L’esperienza vissuta all’interno dei campi di sterminio è in particolare al centro dell’opera letteraria di Primo Levi. Entrato nel Partito d’azione, Levi inizia a prendere parte alla lotta partigiana, ma nel corso di un rallestramento viene arrestato dalla milizia fascista e poi internato ad Aushwitz in Polonia. Qui rimane fino a quando non viene liberato dall’arrivo delle truppe russe. Il desiderio di raccontare gli orrori vissuti nel lager lo spinge a realizzare l’impresa di narrare l’inesprimibile, cioè il progetto folle di annientare milioni di ebrei e, con essi, altre minoranze etniche e religiose. Scrive Levi nel libro “Se questo è un uomo”: “Il bisogno di raccontare agli ‘altri’, di fare gli ‘altri’ partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in un primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore”. Questa tragedia storica e personale di Levi sembra richiamare per certi versi persino il racconto dell’Inferno dantesco. I campi vengono infatti visti come una sorta di limbo, dove si radunano uomini senza parola, pervasi dalla paura e avvolti nell’atmosfera silenziosa di una terrificante incertezza. Anche il viaggio che porta lo scrittore e i deportati verso il campo, ammassati come bestie sui treni, sembra quasi richiamare la discesa degli abissi nella voragine infernale. La tragedia del Lager è infatti incisa nel corpo del superstite non soltanto col numero tatuato sul braccio ma anche come trauma. Il corpo, quindi, non è solo il luogo che custodisce la memoria, ma è anche usato come motivo per trasmettere la memoria sotto forma di testimonianza letteraria. Si tratta di un tragitto che conduce dall’umanità alla disumanità e alla completa privazione della propria identità attraverso lo scempio che viene fatto al proprio corpo. Ogni esperienza subita dal corpo perciò, lascia un segno non soltanto fisicamente, ma inevitabilmente anche nella personalità della persona che la vive. Persino negli ultimi mesi di “reclusione” forzata, isolati tra i muri delle proprie abitazioni, uomini nel 2020 si sentono invincibili, sono stati invece sopraffatti dalla solitudine e dall’incertezza della pandemia dovuta ad un virus. L’emergenza Coronavirus, oltre a mettere a repentaglio la vita di tante persone che si ammalano, rischia infatti di lasciare segni profondi sul nostro modo di vivere e sulla nostra psiche. Si tratta di una convivenza anomala, forzata, senza precedenti per la gran parte di noi, che può avere conseguenze per i singoli, ma anche nelle relazioni tra le persone con le quali si convive o che improvvisamente non si possono vedere più per molto tempo. Non tutti riescono così a rispettare le regole. Questi cambiamenti così restrittivi della propria libertà, per la stragrande maggioranza risultano difficili da attuare poiché bisogna modificare il proprio stile di vita quotidiano, le proprie abitudini, sia quelle buone che quelle cattive. In chi sta bene, ma soprattutto nei giovani, venendo meno il fattore della motivazione, non si percepisce l’importanza a livello personale dell’utilità delle indicazioni fondamentali. Ci si sente omologati, oscurati dalla mascherina e dal limite di non poter sfiorare più da vicino non solo le persone, ma anche quelle piccole cose che si davano per scontate e che invece adesso assumono un valore diverso. C’è chi solitamente è più solitario e ama stare in casa, ma questa volta è diverso. Si tratta infatti di un obbligo, non di una scelta e l’uomo non vede l’ora di tornare a quella normalità che spesso ha odiato, ma di cui adesso più che mai sente la mancanza.