Da piccoli all’asilo avevamo paura di un disegno troppo grande da colorare perché avrebbe tolto tempo alle costruzioni. Alle elementari avevamo timore di una poesia troppo lunga da imparare perché ritenevamo impossibile ricordarla tutta e contemporaneamente recitarla con espressione davanti ai nostri compagni di classe. Alle medie invece temevamo di non riuscire a completare una mole di compiti ai nostri occhi esagerata. Poi sono arrivate le superiori ed è cominciata la paura dei voti delle interrogazioni, dei compiti in classe e infine della famosa maturità. Terminata la scuola però, ci siamo resi conto di come siano passati troppo in fretta gli anni più belli e di come la vita sia molto più dura di quanto ci poteva sembrare un 6 al compito di matematica.  Quest’anno è stato un anno particolare. L’anno dei 18 anni ormai passati, della patente, della fine dei giochi e del liceo, della maturità, dei sogni, delle prime piccole delusioni, delle aspettative e dei test di ammissione. A prescindere dall’esito delle prove è stata un’esperienza che ha messo a dura prova noi neo-maturati non solo per quanto riguarda lo studio e la preparazione, ma anche nel dover assumere un nuovo atteggiamento davanti a situazioni che la vita di tanto in tanto pone davanti e che all’apparenza sembrano più grandi di noi stessi. L’estate dei neo-maturati è un’estate particolare. E’ l’ultima brezza di spensieratezza per alcuni o il primo assaggio dello studio universitario per altri. E’ l’estate dei cambiamenti, del primo viaggio con gli amici e anche di nuova gente con cui condividere interessi, progetti e sogni. Un pezzo di carta ti dichiara “maturo” ma adulto non ti senti per niente. Questo periodo dopo la maturità ti insegna ad avere le spalle larghe più di prima e più di quanto un piccolo voto tanto sudato ma mai abbastanza alto quanto le aspettative, può averti insegnato in cinque anni al liceo. Nel post maturità ci si sente tutti un po’ così, spaesati e insicuri sul proprio avvenire. Domani non è più il primo giorno di scuola all’ultimo banco con la testa poggiata sul muro, ma ci si alza e si cammina da soli. C’è chi è sicuro al cento per cento su quale debba essere il suo futuro, chi non ne ha la più pallida idea e chi invece ha adorato per tutto il liceo due materie anziché una e non sa cosa sia più giusto scegliere. In realtà non c’è una scelta giusta e una sbagliata, ma come ci insegna Jean-Paul Sartre, ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere. La scelta in un periodo delicato come questo per un ragazzo è dunque fondamentale. Il filosofo danese Kierkegaard sottolinea come le scelte debbano necessariamente essere fatte in solitudine, perché è solo con la solitudine che si sperimenta l’angoscia, un sentimento di indeterminatezza e vertigine della libertà causato da un’indecisione permanente dinanzi ad alternative inconciliabili. E’ come trovarsi di fronte a due strade diverse e poterne imboccare solo una, senza avere la possibilità di un qualche aiuto da casa. Non deve essere un amico, i genitori, i prof o gli zii a dirti se andare a destra o a sinistra, ma esclusivamente il tuo libero arbitro. Ad alcuni dei diciannovenni diplomati probabilmente la scelta sembra impossibile e la sensazione è quella di iniziare a camminare in una strada troppo grande o che non ha le caratteristiche adatte a ciò che ognuno vuole essere e diventare. Ma Kierkegaard ci dice: ‘ Esistere significa “poter scegliere”; anzi, essere possibilità. Ma ciò non costituisce la ricchezza, bensì la miseria dell’uomo. La sua libertà di scelta non rappresenta la sua grandezza, ma il suo permanente dramma. Infatti egli si trova sempre di fronte all’alternativa di una “possibilità che sì” e di una “possibilità che no” senza possedere alcun criterio di scelta. E brancola nel buio, in una posizione instabile, nella permanente indecisione, senza riuscire ad orientare la propria vita, intenzionalmente, in un senso o nell’altro. Con questo non dico affatto che la vita sarà una perenne indecisione e che è praticamente impossibile trovare ciò che meglio si adatta a noi stessi e alla nostra felicità. Dopotutto Kierkegaard era un esistenzialista un po’ drastico. Ci aveva però visto lungo nel comprendere che per quanto una scelta possa essere drammatica e le possibilità che il mondo offre molteplici, le scelte del singolo saranno sempre irriducibili rispetto a quelle di altri. Dunque non esiste una scelta migliore o una scelta peggiore. Non sarà migliore chi ha scelto di diventare Belen, piuttosto che Einstein o Madre Teresa di Calcutta e viceversa. La validità della scelta è invece determinata dall’analisi delle conseguenze che ne deriveranno, o se la si vuole interpretare con più filosofia, dal proprio istinto. Nessuno nasce medico, carabiniere, giornalista o professore e nessuno tantomeno sa se mai il proprio sogno giungerà a destinazione. Magari non andrà così e magari il posto alla fine del viaggio non sarà quello previsto inizialmente. Ma la vita è così imprevedibile che è impossibile tenere tutto sotto controllo e progettare ogni cosa nel minimo dettaglio. Prima della maturità ho visto un film del regista coreano Bong Joon, vincitore di ben 4 premi oscar. In una delle scene centrali del film, Kim Ki-taek, uno dei protagonisti, riflette con il figlio dicendogli: “non avere mai alcun tipo di piano, neanche l’ombra. Sai perché? Se elabori un piano la vita non va mai nel verso che vuoi tu”.  Forse papà Kim ha ragione. Inutile credere nell’umanista “homo faber fortunae suae”. L’uomo non è l’artefice del proprio destino e non può controllare l’evolversi di ogni situazione. Deve però sognare e non fermarsi mai davanti agli ostacoli, neppure quelli più difficili da superare.

Francesca Caputo